1.
C’era una volta un topolino bianco nato in una colonia di topi grigi.
I topi non hanno pelo quando nascono, ma la sua mamma si accorse fin dal primo giorno che qualcosa non andava: gli altri piccoli avevano tutti la pelle scura, mentre la sua era rosa, di un rosa del colore dei confetti, un puntino colorato nella massa palpitante della nidiata che le si stringeva intorno cercando il latte. Anche in questo era particolare: mentre i suoi fratelli spingevano e scalpitavano per raggiungerla, il topolino rosa sembrava quasi attendere il suo turno.
Anche Papà Topo, pochi giorni dopo la sua nascita, si rese conto all’improvviso della stranezza: aveva un figlio rosa! Era sconcertante. E quel rosa, ora che sulla pelle sottile dei suoi eredi stava nascendo la prima peluria, si copriva di un pelo bianco come la neve. Si mise a guardarlo con attenzione, senza dire nulla, ma Mamma Topo, avvertendo lo sguardo sospettoso che si posava sul cucciolo, rabbrividì.
“Cos’ha che non va, questo?” Stava intanto chiedendo lui con gli occhi puntati sulla piccola macchia bianca
“Non vedi? – rispose cauta Mamma Topo stringendo a sé il piccolo – lui è speciale, non si è mai visto un nuovo nato bianco, sarà sicuramente destinato a grandi imprese, non preoccuparti…”
“Non sono preoccupato! – squittì lui di rimando alzando la voce – Sono arrabbiato!! Proprio perché non si è mai visto niente del genere in tutta la nostra comunità potrebbe essere malato, contagiare gli altri e far cambiare colore anche a loro! E non voglio nemmeno pensare a quello che diranno i nostri parenti e conoscenti, quando uscirà dal nido e lo vedranno…”
A queste parole Mamma Topo abbassò gli occhi. Cosa poteva ribattere? Come tutte le mamme del mondo voleva proteggere i suoi figli, ma anche lei si preoccupava di quel piccolo così particolare.
E poi…aveva sentito certe cose, dalla sua vicina, cose alle quali non si poteva credere ma che l’avevano fatta inorridire e no…No! Non voleva proprio pensarci.
Pensò, invece, che sarebbe stata attenta a quel suo piccolo diverso – che poi, non era mica solo una questione di colore, anche gli occhi erano troppo chiari, le unghie troppo bianche, per non dire del modo che aveva di muoversi, sempre svagato, come se non sentisse nulla di quello che lo circondava – sì, doveva stare molto, molto attenta. Non si poteva mai sapere…
I giorni passarono veloci, finché arrivò quello in cui il topolino più intraprendente della nidiata decise di affacciarsi al nido, et voilà, in un attimo era fuori, a scuriosare fra i filari biondi del grano. Ma non si trattava del topolino bianco. Era il numero uno, il primo nato e primo in tutto, il primo a mangiare, quello che squittiva più forte, il più svelto, il più curioso e anche il più atletico.
“Vedo che Numero Uno non ci delude, cara Mamma Topo – esclamò compiaciuto Papà Topo osservando il suo primo figlio uscire tutto baldanzoso dalla tana – vediamo quanto ci metterà invece quell’anomalia che hai partorito, ‘l’essere speciale’ che speravi fosse destinato a grandi cose, a trovare il coraggio di staccarsi dalle tue zampe…ma forse è meglio se non esce, se resta chiuso in una tana fino alla fine dei suoi giorni…che quando uscirà tutti lo additeranno e rideranno di lui. Non è Numero Nove, anche se è nato così: è il Topo Neve! Ci mancava pure questa!”
E si allontanò scuotendo le orecchie.
Gli altri topolini, che non si erano persi una parola, si misero a fissare il loro fratellino bianco, finché Numero Due iniziò a ridere e a canticchiare:
“Neve, Neve, sei il Topo Neve!” e dal quel giorno tutti lo chiamarono così.
Da quelle parti i topolini, prima di diventare a loro volta Mamma Topo e Papà Topo, venivano chiamati secondo l’ordine di nascita: Numero Uno, Numero Due, Numero Tre e così via fino all’ultimo nato che, nella sua famiglia, era stato proprio lui: Numero Nove. Ma il colore che per i topi di campagna apparteneva solo al latte e alla neve – e che non avevano mai visto in un loro simile – abbinato a quel semplice cambio di vocale, fecero sì che Numero Nove diventasse Neve, e Neve restò per sempre.
Col trascorrere dei giorni il grano divenne più dorato, mentre le tribù di topi del circondario proseguivano nelle loro attività. Neve non si era ancora voluto allontanare dalla tana, dove ormai era rimasto da solo; i suoi fratelli scorrazzavano per i campi imparando a cavarsela: in poco tempo ognuno di loro avrebbe trovato il proprio posto nei campi, nei fienili, nelle soffitte abbandonate o nei granai, come fanno tutti i topi di campagna, che questo erano. Alla sera, quando tornavano a dormire, gonfi di cibo, o di paura, o di orgoglio per una nuova impresa a seconda della giornata, dell’umore e anche dei loro vari caratteri, guardavano Neve con sempre maggior stupore, senza riuscire a capire cosa non andasse in lui.
“Perché non esci mai, Neve? – chiedeva Numero Due, che tutto sommato era quello che lo evitava di meno, fra i fratelli – Dì la verità, hai paura che ti prendano in giro!”
“No – rispondeva regolarmente Neve – non ho paura.”
“Non ho paura, non ho paura – lo scimmiottarono in coro gli altri – sembri un disco rotto!”
“Se non hai paura, perché rimani chiuso qui?” Disse una sera Numero Otto.
Persino lui, nonostante la timidezza e i grammi di troppo acciambellati sulla pancia, era stato fra i primi a uscire, trovando in breve motivi più che sufficienti per continuare a farlo, le zollette di zucchero, per esempio, che rubava dalla dispensa degli umani passando da una finestra rotta della fattoria…
“Eh già – si accodò Numero Cinque ripetendo pari pari la domanda – perché rimani chiuso qui?”
Neve non rispose. Stava pensando. Tutto sommato era la stessa domanda di sempre, ma in una nuova prospettiva. Perché restava chiuso lì?
Mentre gli altri pian piano si addormentavano il topolino bianco rimase sveglio a lungo, cercando la risposta a quella domanda.
Prima dell’alba finalmente capì: erano state le parole di suo padre a farlo restare, quelle parole che l’avevano sferzato come un vento gelido, facendo rabbrividire la sua pelle rosa ancora sottile come una buccia di cipolla, quando Papà Topo aveva strillato a gran voce quanto fosse diverso, forse malato, forse una minaccia per la comunità, forse – se andava bene – un topo di cui ridere, un topo da compatire…era cresciuto con quel gelo nel cuore, mentre la sua peluria bianca si trasformava in un pelo morbidissimo e folto dello stesso candore, cancellando anche l’ultima speranza di essere “normale”, di essere come i suoi fratelli, e lui aveva iniziato a vivere in un mondo tutto suo, passeggiando nella tana, e poi nelle gallerie sotterranee che si dipanavano intorno, accontentandosi di guardare quel che c’era fuori affacciato all’entrata del nido, fra le foglie e le piccole pietre che ne nascondevano l’ingresso ai temibili umani, per non parlare dei serpenti, dei cani da caccia, dei falchi e dei gatti…
Quando tutti avevano ripreso la via dei campi e il sole era alto nel cielo, Neve si fece coraggio: doveva uscire dal nido e affrontare il mondo… ormai nemmeno Mamma Topo lo voleva più lì. Presto sarebbero nati altri piccoli, gli aveva sussurrato avvicinando le vibrisse alle sue, non c’era più posto per lui.
3.
Per quelle misteriose coincidenze del destino che spesso accadono nell’Universo, lo stesso giorno in cui Neve si allontanò correndo nel grano, col cuore grosso che batteva di paura e le vibrisse curiose a investigare lo spazio intorno, da tutt’altra parte la mano di un bambino si allungava all’interno di una teca fino a toccare un topolino tutto bianco, fatta eccezione per una macchietta nera, quasi a forma di cuore, che spiccava sulla piccola schiena rotonda.
“Papà – stava dicendo il bambino rivolto a un uomo in camice e guanti bianchi che osservava dei vetrini – Posso prendere Macchia Nera? Posso tenerlo a casa con me?”
L’uomo in camice alzò la testa dal microscopio con un sorriso indulgente:
“E va bene – rispose – prendilo.” E aggiunse, come parlando tra sé:
“Macchia Nera… l’evidenza di uno sbaglio nella selezione genetica. Puoi portarlo a casa – concluse serio guardando suo figlio – ma mettilo nella teca del criceto, e stai attento a non farlo scappare!”
A queste parole il bambino tolse il topolino addormentato dalla sua teca e lo chiuse in una scatola di cartone che aveva con sé, poi mise la scatola nello zaino e lo zaino in spalla, per il breve tragitto che lo separava da casa.
E Macchia Nera? Macchia Nera tremava di spavento come mai prima in vita sua: cosa stava succedendo? Dov’era? Perché era rimasta sola? Perché rimbalzava in lungo e largo in quel posto buio dall’odore strano?
Quando finalmente smise di sbattere a destra e a sinistra, si rannicchiò in preda al panico in un angolo della scatola; il terrore era stato così grande che l’inzuppò di pipì.
Se ne vergognava, ma non poteva farci niente.
Stava cercando di calmarsi, di capire dove fosse, quando il coperchio della scatola venne aperto dalla stessa mano di bambino che aveva segnato la fine dei suoi giorni felici: si sentì prendere e posare all’interno di un’altra scatola, più grande stavolta, e soprattutto trasparente. La prima cosa che vide furono gli occhi spalancati del bambino sopra le sue orecchie tremanti. Poi un rumore fortissimo: era lui che strillava:
“Mamma, Mamma guarda! Papà mi ha regalato Macchia Nera!” Una figura umana passò nel suo campo visivo e subito dopo una voce più dolce rispose:
“Poveri topi… sai per quale studio lo stavano usando?”
“No… Ma papà ha detto qualcosa sulla selezione genetica, per la macchia. Gli altri erano tutti bianchi…”
La donna sollevò delicatamente il topolino osservandolo bene sotto la pancia. Poi lo rimise giù.
“Ho capito… – disse – lasciala tranquilla per un po’, è molto spaventata.”
“Spaventata ?? Ma… è una femmina?”
“Oh sì, è sicuramente una femmina. Una femmina fortunata, direi.” Rispose sua madre facendo l’occhiolino.
4.
In quello stesso momento, a molti chilometri di distanza, il giovane Neve stava cercando un rifugio sicuro per la notte. I primi incontri con i suoi simili erano stati difficili. Per quanto cercasse di mostrarsi amichevole, con grandi sorrisi e cenni del capo ogni volta che ne incrociava qualcuno, gli altri topi lo evitavano.
Eppure parlavano la stessa lingua, mangiavano le stesse cose e avevano, grammo più grammo meno, lo stesso aspetto, a parte il suo problema col colore…si era reso conto che, nonostante la sua cordialità, avevano paura di lui, di lui che aveva paura di tutto! La situazione era precipitata quando, dopo qualche ora di vagabondaggio, era stato circondato da un gruppo di topi bruni le cui tribù avevano colonizzato gran parte delle terre dei dintorni. Quello che sembrava il capo l’aveva avvicinato con aria minacciosa fissando gli occhietti neri dentro ai suoi, e a quel punto era successa una cosa stranissima: il Topo Capo aveva iniziato a squittire come un forsennato urlando “Presto scappate! E’ un alieno, si salvi chi può!!!” ed erano tutti scomparsi in pochi secondi.
“Se non altro non mi hanno aggredito – aveva pensato Neve tirando un sospiro di sollievo – ma cosa vuol dire alieno?”
Era ancora giovane, il vocabolario viene col tempo e le esperienze, ma d’un tratto ricordò che anche suo padre aveva detto qualcosa del genere.
Ancora scosso per il brutto incontro, e pieno di tristezza per la solitudine, cercò di ricordare… alieno… alieno… no, non era quella la parola. Anomalia! Ecco cos’era: anomalia. Alieno e anomalia avevano lo stesso significato? Non lo sapeva. Soprattutto non sapeva cosa ci fosse di così grave in lui da far scappare i suoi simili. Che fossero solo incuriositi, o decisamente diffidenti, il risultato era lo stesso: lo osservavano sospettosi a debita distanza, non rispondevano alle sue parole e poi si allontanavano; oppure si comportavano come se fosse trasparente.
Per fortuna – pensò ancora – sapeva procurarsi il cibo; Mamma Topo (almeno lei!) gli aveva voluto bene: se sapeva come nutrirsi e come proteggersi dai predatori, per quanto difficile potesse essere spiegarsi all’interno della tana, lo doveva a lei.
Immerso nei suoi tanti pensieri, Neve riprese la via dei filari, in cerca di un posto tranquillo dove dormire. Dopo vari tentativi andati a vuoto riuscì a trovare un avvallamento nel terreno, nascosto da rami e foglie. Finalmente! Si infilò lì dentro, richiuse bene lo spiraglio che si era aperto, si abbracciò alla coda per farsi compagnia e si addormentò. Per quel primo giorno ne aveva avuto abbastanza.
5.
L’alba del giorno dopo arrivò portando una domanda: avrebbe mai trovato, nel grande mondo fuori, un altro come lui? Si affacciò all’ingresso del suo rifugio improvvisato continuando a pensarci, e stava già per saltar fuori quando avvertì un fruscio che gli bloccò il respiro in gola. Si muovevano solo le vibrisse…
Gatto! E’ un gatto… e al gatto non interessava il suo colore, ma il suo sangue, rosso e caldo come quello di qualunque altro topo al mondo. I gatti, gli aveva spiegato sua madre, hanno un udito finissimo, persino migliore del nostro! Se ne senti uno appostato vicino alla tana non uscire e copriti il cuore, perché batterà forte, e lui lo sentirà…
Il cuore… il suo cuore era un concerto di percussioni esplosivo.
Indietreggiò appiattendosi sul fondo della buca, le orecchie pronte ad agguantare ogni rumore finché – dopo un tempo che gli parve lunghissimo – il gatto, stufo, o per sua fortuna poco affamato, si allontanò per rincorrere un ramarro. Quando finalmente riuscì a uscire sgusciò svelto sul limitare del campo, facendo attenzione a non rendersi troppo visibile, che i pericoli potevano arrivare da ogni parte… soprattutto, aveva detto Mamma Topo, mai dimenticarsi di controllare il cielo!
Oh sì, il cielo… gli piaceva moltissimo l’azzurro strisciato di nuvole bianche, l’aveva guardato così tanto, quel magico ritaglio blu, affacciato all’ingresso della tana in cui era nato e che bello ora, che poteva guardarlo tutto, con la luce forte dell’estate che rendeva l’azzurro anche più intenso.
Oh poesia, oh meraviglia… Oh… Oh per la miseria di tutti i topi, un falco!!!
Lo sanno tutti, che l’occhio di falco non perdona, ma solo i topi sanno quanto i falchi siano ghiotti di topi. Un ottimo spuntino a colazione, un saporito aperitivo prima di cena, il topo fresco al falco piace a tutte le ore… non che Neve avesse avuto il tempo di fare queste considerazioni, ma lo sapeva. Lo sapeva molto bene. Quando la grande ombra aveva oscurato il cielo sopra di lui, nel lento volteggio che precede l’attacco, con gli artigli in fuori pronti a ghermirlo, Neve aveva potuto solo sperare. Sperare e pregare il Dio dei Topi, se mai ce n’è uno, di non essere visto. Incredibilmente, dopo qualche giro ozioso, il falco volò via.
Quello che Neve non sapeva, mentre ringraziava il Dio dei Topi per averlo preservato, era che il falco ci vedeva benissimo, ma prima di capire cosa fosse quel puntino bianco sul terreno, il topo aveva fatto in tempo a sparire. Del resto prede bianche in quelle lande non ce n’erano.
Di chiaro c’era giusto il sottopancia dei leprotti, ma anche quelli erano di un altro colore, dall’alto del suo punto di vista.
Minacce a terra, minacce dal cielo, che altro aspettarsi dalla giornata, dopo un tale inizio?
Serpenti, cani e umani erano gli altri pericoli estremi da cui guardarsi.
Cani e umani un po’ meno, che fra berci e latrati è difficile non sentirli.
Ma i serpenti sono silenziosi. Silenziosi e svelti.
Neve continuò la sua perlustrazione a orecchie e vibrisse mobili, percorso di topallerta lo chiamavano a casa, che coi serpenti non si può mai dire.
Proseguì a lungo in modalità topallerta, per quanto, dopo gli spaventi iniziali, sembrasse tutto tranquillo. Aveva bisogno di mangiare qualcosa che non fosse il grano, per cambiare, così abbandonò il campo a favore di un giardino di umani che aveva intravisto in lontananza.
Mamma Topo gli aveva spiegato, fra le tante cose, che i giardini degli umani si riconoscono facilmente, perché hanno l’erba bassa e i fiori piantati in ordine. Aveva chiesto maggiori spiegazioni su cosa si intendesse con fiori piantati in ordine.
“Non so spiegarlo meglio – aveva detto lei – Ma quando li vedrai lo capirai.”
Era vero: erba bassa, incredibili cespugli di fiori a intervalli regolari, vialetti, e sul fondo una grande casa, ma diversa da quella della fattoria. Tombola!
Dove ci sono le case degli umani c’è una gran varietà di cibo.
Con quest’unico pensiero in testa Neve si avvicinò rapidamente al giardino, abbandonando la modalità topallerta a favore della velocità. C’era quasi! Rallentò solo quando intravide quello che gli sembrava un buon punto d’osservazione della casa, un posto tranquillo da dove guardare senza essere visto, controllare che non ci fossero gatti, umani o cani in giro e valutare il da farsi: il fitto di una bella siepe.
Raggiunta la siepe si infilò dentro svelto come solo un topo riesce a fare per proteggersi, ma non trovò un posticino tranquillo ad aspettarlo. Trovò la più grande sorpresa della sua vita.
Almeno, della sua vita fin lì.
A qualche metro da lui un topo bianco lo fissava, come in uno specchio. Un topo alto come lui, bianco come lui, e come lui – di botto – in massima allerta. O topallerta, se preferite.
Entrambi immobili.
Poi successe una cosa strana: il topo come lui gli corse incontro con un gran sorriso e disse:
“Ciao! Anche tu sei stato preso da un bambino che ti ha portato a casa sua?”
Neve, sorpreso e disorientato da quello che aveva appena visto ammutolì.
“Allora? Perché sei qui? Come ti chiami? Io sono B56, ma il bambino mi chiama Macchia Nera.”
Non sembrava cattivo. Non sembrava avere cattive intenzioni. Ma occhi di topo così non ne aveva mai visti. Alla fine prese coraggio, doveva sapere:
“Tu… tu… hai gli occhi rosa!”
“E con questo? Anche tu hai gli occhi rosa, come tutti”
“Ma cosa dici? Io ho gli occhi neri, i miei fratelli hanno gli occhi neri, tutta la mia famiglia li ha così, nessun topo può avere gli occhi rosa!”
“Beh, tu sì a quanto pare. E anch’io. E anche tutta la mia famiglia – ribatté il topo bianco come lui – E comunque – concluse sbuffando – io di topi con gli occhi neri non ne ho mai visti.”
Dopo di ché riprese imperterrito la sua raffica di domande:
“Ma perché, tu hai visto topi con gli occhi neri? Da dove vieni? Sei rimasto solo? Anche tu stai cercando gli altri? Chi ti ha portato via dai tuoi? Non mi hai nemmeno detto come ti chiami!”
Un bombardamento. Impossibile di non rispondere…
“Neve”
“Neve? Non hai un numero, come tutti? E’ il nome che ti ha dato il bambino?”
“Beh, sì, in effetti prima ero Topo Nove, ma poi me l’hanno cambiato… per il colore…”
“Te l’ha cambiato il tuo bambino!”
“No, me l’ha cambiato mio padre! Cos’è un bambino?” Lo stava ancora chiedendo, quando si ricordò che “bambino” è la definizione che gli umani danno ai loro cuccioli.
“Come cos’è un bambino? Un bambino è un uomo ancora piccolo! Mi prendi in giro?
“No… è che a casa mia li chiamiamo “gli umani” piccoli o grandi che siano…”
“Ah. Allora a te chi ti ha portato via da casa? Un uomo? Una donna? Ti hanno portato via anche se sei tutto bianco?”
“Nessuno mi ha portato via, me ne sono dovuto andare… e proprio perché sono bianco!”
“E allora? Sono tutti bianchi, a parte me, e gli altri non li hanno separati e nessuno di loro è stato scelto per essere portato via, solo io!”
A Neve iniziava a girare la testa:
“Cosa stai dicendo, non ci sono topi bianchi, a parte noi due!”
“Intanto io non sono tutta bianca – rispose stizzita lei voltandogli le spalle – e poi non mi piacciono i bugiardi!” In quel momento Neve comprese tre cose fondamentali: primo: esistevano altri topi bianchi; secondo: c’erano altre eccezione alla regola; e terzo, l’eccezione alla regola che aveva davanti era una femmina. Avrebbe dovuto capirlo subito, dall’odore, ma non ci era arrivato.
Troppe emozioni tutte insieme. B56 continuava a dargli le spalle. Si era offesa?
“Ehi… – provò a dire timidamente – Ehi B56… – nessuna risposta. La macchietta a forma di cuore gli respirava davanti. “Ti devo chiamare Macchia Nera?”
La topolina si voltò di scatto:
“No, chiamami come ti pare, ma Macchia Nera no. E’ stato quel bambino cattivo a chiamarmi così, quello che mi portato via dalle mie sorelle, e ora mi sento tanto sola… e allora quando mi ha messo sulla finestra me ne sono andata… Anzi – disse d’un tratto – verresti a cercare le mie sorelle con me? Poi forse potresti restare con noi, anche se vieni da un’altra casa laboratorio…” concluse speranzosa. Prima che Neve avesse avuto il tempo di capire cosa stesse dicendo, lei si era già allontanata dalla siepe.
“Dove vai? B56, dove vai?”
“Là, guarda, ci sono degli umani, come li chiami tu, vieni! Andiamo a farci dare qualcosa da mangiare… Ho fame!”
“Ma sei impazzita?? Gli umani sono nostri nemici, come i loro maledetti cani e come i gatti e i serpenti e i… falchi, accidenti! Vuoi farti mangiare da qualcuno di loro?”
“Non hai capito – rispose lei come niente fosse – è il contrario: sono loro che danno da mangiare a noi! Lo fanno sempre… E tu dici delle cose strane… Anzi – continuò rallentando fino a fermarsi – cos’hai detto di preciso?”
“Ho detto – ansimò Neve – che gli umani non danno da mangiare ai topi. Li uccidono! E siccome col chiasso che fanno non sono molto abili hanno addestrato i gatti a farlo per loro!!”
La topolina lo guardava allibita.
“Che cosa sono i gatti?”
Oh Dio dei Topi… Era senza speranza.
“I gatti – iniziò Neve in un misto di sconcerto, incredulità e – sotto sotto – sarcastico divertimento – sono quelle dolci creature enormi, piene di pelo, con gli occhi verdi e le orecchie a punta, con artigli potenti e zanne affilate, che si divertono a squartare i topi per cena!!”
“Dei mostri…- squittì B56 – Maaaa…- pausa di riflessione – Uhm… e perché io non li ho mai visti?”
“E che ne so perché! Perché… perché… Ma tu, in che mondo vivi?”
“E tu allora? Racconti delle cose assurde… Tu, in che mondo vivi!”
“In campagna, in un mondo di topi grigi con gli occhi neri pieno di umani e gatti e cani e pericoli dalla terra e dal cielo da cui guardarsi! In un mondo dove nessuno ti dà da mangiare per niente, tanto meno un tuo nemico. – esplose Neve – In un mondo – aggiunse sommesso – dove sono l’unico topo bianco con gli occhi rosa che non spintona per togliere il cibo agli altri, e per questo faccio paura e non mi vogliono tra loro…”
B56 lo guardò seria:
“Ohhh…”
“Solo ‘Oh’?”
Silenzio.
“Bene, ora possiamo tornare nella siepe, per favore?”
Ancora silenzio. Ce la poteva fare.
“E perché dovrei crederti?”
Neve sospirò. Testarda, oltre che ingenua.
“Perché – disse serio guardandola negli occhi – vorrei provare a salvarti la vita.”
“…”
“Andiamo adesso?”
“…Ma io ho ancora fame! Se non mangio come me la salvi la vita?”
Era da non credere… femmine!
“Ho capito, lo so, ti darò da mangiare e poi ti insegnerò a trovare il cibo!”
“Mi aiuterai anche a tornare dalle mie sorelle?”
“E va bene!! Cercheremo le tue sorelle, ma ora andiamo via. E’ pe-ri-co-lo-so!!”
Finalmente riuscì a convincerla. Vicino a lei, fra le foglie fitte della siepe, iniziò a raccontare la sua storia: della sua famiglia di topi grigi di campagna, di Papà Topo e di come l’aveva ribattezzato, di Mamma Topo l’unica – disse – ad avergli davvero voluto bene, nonostante tutto – di gatti e di falchi, di cani e di serpenti e di come non ci fossero i fiori piantati in ordine, da dove veniva lui, ma i filari di grano e la fattoria, e tante altre cose…
Troppe cose!
B56 si era addormentata con l’orecchio appoggiato alla sua spalla.
Speriamo che sia stata la fame… pensò Neve.
Era un po’ triste. La sua nuova amica era quasi tutta bianca come lui, ma non per questo lo capiva! Guardò la macchietta scura a forma di cuore che si alzava e si abbassava sulla piccola schiena.
Beh, almeno è carina, pensò prima di scivolare nel sonno… MacchiaCuore.
Forse poteva chiamarla così.
6.
Fu un sonno breve. Quando Neve si svegliò vide B56, anzi no, MacchiaCuore, appostata fra i rami della siepe a guardare fuori. Con cautela. Bene, pensò, almeno questo l’ha imparato…
Si avvicinò a lei. Adesso erano in due a guardare.
“Ricordati la tua promessa…” esordì lei senza voltarsi
Ok, aveva fame, lo sapeva. E anche lui. Doveva muoversi.
“Seguimi – disse – svelta”
“Dove andiamo?”
“A recuperare da mangiare”
“E dove, di grazia?”
“Seguimi ho detto, vuoi mangiare a o no?”
“Uffa…”
Si mossero veloci. O meglio, Neve si mosse e MacchiaCuore seguì a ruota. Aveva troppa fame per continuare a discutere, e degli uomini, dopo quel che aveva sentito, non si fidava più.
In men che non si dica “Gatto!” raggiunsero il retro della casa, dove c’era un grosso bidone della spazzatura. Neve le disse di restare lì vicino, poi ci si arrampicò in gran velocità sparendoci dentro.
“Neve! – strillò lei – che vuoi fare?”
Niente. Sentiva solo qualche zampettio. Poi, dal coperchio sghimbescio, piovve una crosta di pane. Poco dopo una buccia di cocomero. Un biscotto rinsecchito. Un pezzo di mela marcia.
Infine Neve, che tornò calandosi giù in tutta fretta.
Era abbastanza disgustata.
“Beh, MacchiaCuore, cos’è quel musetto? Guarda quanta bella roba, svelta, aiutami, dobbiamo toglierci di qui, siamo troppo scoperti! Prendi la mela e il biscotto, io porto il resto.” disse radunando i vari pezzi sparsi intorno al bidone. Ma lei non si muoveva.
“Andiamo!”
“Non mi piacciono queste cose. Hanno un cattivo odore. Non è il cibo che mangio io.”
Oh Dio dei Topi, aiutami!
Stava iniziando a perdere la pazienza, e ormai sarebbe stato quasi pronto a lasciarla lì, quando un nuovo imprevisto tagliò la testa al topo mettendo fine a ogni discussione.
Stavano arrivando gli umani, e li aveva visti anche lei.
“Presto, sotto il bidone!” Intimò Neve “Sperando che non ci sia un serpente…” aggiunse fra sé.
Ma questo non glielo disse.
Per fortuna niente serpenti, al contrario, scoprirono che non era male, come rifugio.
Si potevano tirare lì sotto i resti di cibo, e mangiare restando tranquilli per un po’, come iniziarono a fare.
“Allora? – chiese Neve – non sarà un tre stelle della Guida Toplen, ma come ristorante può andare, no?”
MacchiaCuore, che stava sbocconcellando a vibrisse storte il pezzo meno marcio della mela marcia, lo fulminò con lo sguardo.
“Da dove vengo io – disse risentita – non si mangiano i resti dei bidoni della spazzatura”
“Ah no? E cosa mangiate, sentiamo…” sbottò Neve.
Quel topo femmina stava iniziando a innervosirlo.
“Beh noi… cioè a casa mia mangiavo il cibo che mi davano gli uomini! E anche dal bambino, erano lui, o sua madre, a darmi da mangiare. Cose buone.”
Ora era nervoso sul serio:
“Ancora con questa storia? Dovrei credere che vieni da un luogo fantastico, dove stuoli di topi bianchi vengono amorevolmente nutriti dagli umani e magari serviti da gatti in guanti bianchi? E cos’è, il Paradiso dei Topi??”
“Beh – rispose pronta MacchiaCuore – gatti non ne ho visti, ma guanti bianchi sì: li indossano gli uomini che ci danno da mangiare.”
Guanti bianchi, topi bianchi… qualcosa nel cervello di Neve fece “clic”.
Un’emozione. Un ricordo soffocato sul nascere e poi sepolto. Sua madre che piangeva. La vicina. Lui ancora piccolo, appena coperto di peluria. La voce della vicina. Ancora sua madre che piangeva. Guanti bianchi. Pelo bianco. Cosa aveva detto la vicina a sua madre?
Non lo sapeva più. Ma da quel giorno qualcosa era cambiato.
“Ok, MacchiaCuore, va bene. – disse riscuotendosi dai suoi pensieri – Andiamo a cercare le tue sorelle al Paradiso dei Topi.”
7.
Camminarono per giorni e giorni. Per qualche misteriosa ragione MacchiaCuore sapeva qual era la direzione da prendere. Glielo diceva l’istinto. Neve non chiese spiegazioni. Erano Topi. Anche lui avrebbe saputo ritrovare la strada di casa. Ma lui non voleva tornarci.
Lei invece sì, e questo – pur non sapendo perché – non lo tranquillizzava per niente.
Forse doveva davvero salvarle la vita, dopotutto…
Nei lunghi giorni di cammino avevano imparato a fidarsi l’uno dell’altra, avevano cercato il cibo insieme, si erano guardati dai predatori, avevano trovato rifugi e intrecciato le loro lunghe code nel sonno. Si erano conosciuti. Ormai non restava che aiutarla a tornare a casa, e scoprire se davvero poteva esserci un posto anche per lui o se, come temeva, non avrebbero trovato nessun Paradiso dei Topi ad attenderli.
Cercò di immaginarsi quel posto che MacchiaCuore insisteva a descrivergli come tanto sereno e accogliente, quel posto dove mani in guanti bianchi offrivano cibo a intervalli regolari, e dove poteva stare in compagnia delle sue tante sorelle.
“Ma… siete tutte femmine?” aveva chiesto
“Certo – aveva risposto lei senza scomporsi – siamo la Tribù B!”
Mah… in effetti lui non aveva grande esperienze di tribù, ma sentiva che c’era qualcosa che non quadrava… Stava ancora riflettendo su questo, quando MacchiaCuore balzò in avanti, mostrandogli felice un alto edificio quadrato, tutto liscio e pieno di finestre, di un tipo che Neve non aveva mai visto. Era appena fuori dal paese che stavano costeggiando, a poche centinaia di metri da lì.
“Vieni! – strillò MacchiaCuore saltellando – Andiamo, cosa stai aspettando!”
Ma Neve non si muoveva. Aveva le orecchie dritte e le vibrisse mobili.
“Non mi fido. Vuoi entrare lì dentro? Sarà pieno di umani!”
“Ma Neve, è casa mia! Non ci sono umani cattivi a casa mia, te lo giuro…” disse lei supplicandolo.
Poi, visto che lui non mostrava nessuna intenzione di seguirla, s’incamminò.
“Beh, io ti ho invitato, ma se non vuoi venire non posso mica aspettarti in eterno!” stava dicendo allontanandosi.
Oh Dio dei Topi, ma perché? Che testa dura! Si risolse a seguirla solo perché temeva per lei.
Raggiunsero il misterioso edificio e lei si arrampicò decisa verso una delle finestre del secondo piano. Entrarono insieme dalla finestra aperta. All’interno nessun movimento. Silenzio.
Nella stanza alcune grandi teche trasparenti, ma vuote. Microscopi. Banconi d’acciaio.
Neve rabbrividì.
“Dove sarebbe la tua famiglia?”
MacchiaCuore, disorientata, non rispose. Si era diretta sicura verso una delle teche, ma era vuota, come tutte le altre. Le veniva da piangere.
“Non lo so, erano qui… stavamo qui! E gli umani allora? Non ci sono neppure loro!”
E meno male! Pensò Neve tirando un sospiro di sollievo. Ma anche stavolta non disse nulla.
Il suo istinto gli suggeriva di andarsene, e alla svelta. Ma la sua amica non ne voleva sapere.
Lei si stava spostando velocemente dalla teca vuota alla porta d’ingresso della stanza, da lì passò a un lungo corridoio che portava ad altre stanze. Non voleva arrendersi.
In fondo al corridoio udirono delle voci.
“Andiamo via, ti prego!” sussurrò Neve
“No. Nascondiamoci. Cerchiamo di scoprire qualcosa almeno!” Rispose lei di rimando.
Testa dura.
Si fecero piccoli piccoli dietro un mobile in prossimità della stanza. La porta era socchiusa.
“Come va?” stava dicendo un uomo
“Uhm…poteva andare meglio… – seconda voce umana – Nel gruppo B un sacco di scarti. Mettili nei sacchetti sigillati, li vendiamo come cibo per rettili. Peccato però. Sono pochi quelli adatti a questa sperimentazione”
Non si vedeva nulla, e non si capiva di cosa stessero parlando. I due topi si guardarono.
Cosa stava succedendo? Dopo qualche minuto gli uomini uscirono dalla stanza, lasciando la porta aperta. Entrarono. Ma non fu il Paradiso dei Topi, quello che videro.
Odore di cloroformio e di disinfettante. Un lungo bancone d’acciaio. In mezzo al bancone una grossa busta trasparente. Dentro la busta tanti piccoli topi rosa appena nati, ancora senza pelo, uno attaccato all’altro, i corpicini inermi evidenziati dal sottovuoto.
L’urlo di terrore di MacchiaCuore trafisse le orecchie e la pancia di Neve prima ancora di capire il significato di ciò che avevano appena visto. Ma lei aveva capito. Anche se non erano le sue sorelle, quelle nella busta, erano morti, erano sicuramente tutti morti.
Cibo per serpenti. Carne da esperimento, e chissà che altro. Per questo li tenevano bene.
Per questo li nutrivano. Li nutrivano per ucciderli meglio.
Era ancora viva solo per la sua differenza di colore, la differenza per cui un bambino aveva scelto di portarla via. Il bambino figlio degli assassini della sua famiglia.
Immobilizzata e tremante di paura cercò gli occhi di Neve.
Salvami, ti prego. Portami via. Questo dicevano i suoi occhi.
8.
Si allontanarono insieme, come insieme erano arrivati.
Insieme percorsero chilometri e chilometri in giorni a volte allegri e a volte tristi.
Insieme impararono a costruire tane a prove di pioggia e di predatori.
Insieme trovarono un posto dove stabilirsi.
E insieme crebbero, più o meno felici, scoprendo nel tempo l’esistenza di qualche altro topo grigio, o bruno, o fulvo, persino di qualche topo bianco scappato dal laboratorio, e incontrarono topi silenziosi e topi semprallerta, troppo ruvidi o troppo morbidi, topi malinconici ma a volte ilari, topi musicisti spaventati dai rumori, topi fissati con le nuvole o coi fiori, topi pittori e topi che scrivevano poesie, ballerini ma anche zoppi, timidi e sbruffoni, scoprendo infine che tutti questi topi vivevano sparsi per chilometri attorno nascondendosi agli occhi degli altri.
Tutti diversi, tutti un po’ strani, ma ognuno a modo suo, che – come diceva Mamma Topo – non è mica solo una questione di colore… c’era tanto altro.
Col tempo Neve e MacchiaCuore conquistarono la loro fiducia e pian piano li fecero incontrare, organizzando feste e giochi per tutti, finché nessuno fu più davvero solo, a parte quando lo decideva.
Sì, perché questi topi un po’ strani negli anni si erano così abituati a stare da soli che non sempre apprezzavano la buona compagnia…
Ma spesso sì!
Così, dove all’inizio c’erano solo due topi strani, crebbero nel tempo altrettanto strane, nuove tribù, tribù impossibili da etichettare per colore, che i colori si erano tutti mischiati, o per numero: nessuno di quei topi aveva il nome di un numero.
Li chiamavano “I pazzi colorati”. Anche perché… era molto di più di una questione di colore.